OSSERVAZIONI
AL DISEGNO DI LEGGE 4337
SENATO “DISPOSIZIONI PER LA
REPRESSIONE DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO NELLE AREE SOGGETTE A VINCOLI DI
TUTELA E MODIFICHE ALLA LEGGE 28 FEBBRAIO 1985, N. 47 A
cura di: Patrizia Fantilli Premessa Il WWF
rileva una forte discrepanza tra le finalità dichiarate dal Disegno di
Legge in oggetto e le conseguenze reali e concrete che questo potrebbe
produrre qualora dovesse
essere approvato integralmente il testo proposto dal Governo. Non
v’è alcun dubbio sul fatto che oggi, a fronte di una normativa chiara
ed inequivocabile vigente in materia di abusivismo edilizio, ci sia una
gravissima situazione di impasse. Il fenomeno dell’abusivismo, sebbene
rallentato, non s’è fermato; inoltre non si procede con la necessaria e
dovuta tempestività nei confronti degli abusi insanabili. Esistono a tale
proposito pesantissime responsabilità politiche, soprattutto per quei
Sindaci che non sono stati sufficientemente garanti degli interventi che
sono a tutti gli effetti un obbligo di legge. Se dunque il WWF
condivide le intenzioni dichiarate dal Governo (“rafforzamento delle
condizioni per un’efficace repressione
degli abusi”), ritiene che l’applicazione pratica di alcune
disposizioni previste dal disegno di legge in oggetto porterebbe, nei
fatti, ad un pericoloso rallentamento (se non addirittura al blocco) di
decine di migliaia di interventi già oggi pienamente eseguibili.
Sussiste una significativa divergenza di vedute tra i principi
ispiratori del provvedimento in esame
e la visione del WWF Italia sull'attuale situazione giuridico -
normativa in materia di demolizioni delle opere abusive.
Questo aspetto, che per
certi versi va considerato come pregiudiziale, è relativo a concetti di
fondo di natura tecnico/giuridica prima ancora che politica. Il WWF
infatti non concorda su una considerazione di fondo che sembra ispirare
l’intero disegno di legge del Governo e cioè che la vigente situazione
normativa sia insufficiente
oltre che inapplicabile per vizi genetici e strutturali degli impianti di
legge. Da tale presunta difficoltà si trae il convincimento della
necessità di nuove norme che
facilitino le attività di demolizione, che oggi non verrebbero attuate a
causa delle presunte difficoltà normative.
Il
WWF, come già ripetutamente detto pubblicamente, esprime un opinione
favorevole su qualunque strumento o norma
che aumenti l’incisività e la tempestività degli interventi che
devono essere posti in essere, a patto però che si dimostri che le norme
proposte non entrino in contraddizione con i principi giuridici e
nell’applicazione pratica siano idonee ad ottenere questo obiettivo. A
nostro parere non solo il giudizio che dev’essere dato sulla normativa
vigente dev’essere più attento (e non deve sovrapporre i piani
dell’applicazione giuridica a quelli dell’applicazione amministrativa
e politica, cioè quello che si può fare con ciò che non si vuole fare).
In via preliminare ed estremamente schematica, il WWF in linea
generale esprime condivisione per l’acquisizione al patrimonio dello
Stato di tutte le opere abusive ricadenti nelle aree con vincoli di tutela
(art. 3), ritiene importante
un’esplicita e chiara responsabilizzazione
dei Prefetti nella lotta all’abusivismo (art.
4), giudica utile l’aver esplicitato il coinvolgimento delle
strutture tecnico-operative del Ministero della Difesa (Capo II, modifica
art.27 L.47/85), ma ritiene assolutamente ingiustificato sul piano del
diritto e estremamente
dannoso sul piano operativo quanto stabilito in relazione ai cosiddetti
“abusi di necessità” (art.4
comma 5 ed art. 5).
Il disegno di legge va dunque esaminato analiticamente, anche per
evitare che si modifichino procedure già esistenti, che potenzialmente
potrebbero funzionare, per sostituirle con procedure che potrebbero essere
facilmente impugnate se non addirittura risultare più garantiste per gli
abusivi. La normativa vigente in
materia di abusi edilizi
Considerazioni generali
Come abbiamo detto, il Disegno di Legge
si va a innestare su una situazione normativa ed operativa oggi
chiarissima e potenzialmente efficace.
Va considerato che le demolizioni fino ad oggi non sono state eseguite per mancanza di volontà politica ed amministrativa, oltre che giudiziaria. Se questa volontà fosse ritrovata, oggi le pubbliche amministrazioni comunali, le prefetture, i pubblici ministeri, ed i presidenti degli Enti parco, potrebbero senza alcun problema giuridico e formale procedere immediatamente a tutte le demolizioni delle opere abusive esistenti sul territorio sia in sede di procedura amministrativa, sia in sede di procedura penale. In realtà soltanto ostruzionismi e cavilli formali (e “scarica barile” reciproci) hanno fino ad oggi fatto insabbiare le procedure per gli abbattimenti.
Innestare su tale già pernicioso sistema un
ulteriore provvedimento che, nonostante le intenzioni, sostanzialmente
crea nuove prassi, nuove procedure, e
quindi nuovi termini da
aprire, nuove possibilità di
scarico di responsabilità e deleghe di competenze, nuove scappatoie con
cavilli tecnico - amministrativi, significa rischiare di rendere
definitiva ed inaffrontabile la situazione di stallo che si è creata
ormai da anni presso i soggetti amministrativi responsabili delle
procedure di abbattimento, offrendo
a tutti una nuova comoda giustificazione della volontà omissiva ormai
chiarissima da tempo. Tale volontà omissiva è talmente evidente che
recentemente la Corte di Cassazione
è intervenuta, pesantemente ed efficacemente
stabilendo, con una sentenza di portata storica, che il sindaco che
non abbatte entro un anno le opere abusive deve essere condannato per
omissione di atti di ufficio; la sentenza riguarda una mancata ottemperanza ad un abbattimento ordinato dal giudice, ma il
principio è assolutamente identico ed applicabile anche agli
abbattimenti di competenza diretta
del comune. Con ciò la Cassazione ha stroncato la facile scusante
adottata per giustificare le
mancate demolizioni: rinvii e proroghe non giustificheranno dunque più le
mancate demolizioni, atteso che la Cassazione ha ragionevolmente
quantificato il termine massimo a disposizione della pubblica
amministrazione per attuare la procedura di abbattimento in un
anno.
Vi è stata in questi
anni una proliferazione generale degli abusi edilizi che, pur costituendo
reato, sono evidentemente giunti a conclusione
senza che si sia operato (come invece era doveroso) per impedire che i singoli
reati venissero portati ad ulteriori conseguenze, ovvero stroncando
l'attività edilizia sul nascere con il sequestro amministrativo e penale
dei cantieri illeciti già nel momento iniziale. Essendo l’abuso edilizio un reato, consente, anzi obbliga,
tutti gli organi di polizia ad intervenire ed impone loro di
interrompere l’azione che produce il reato per impedire che questo
produca conseguenze più gravi. Questo
è un dato oggettivo perché, e se ognuno avesse operato secondo le norme
procedurali, oggi non ci troveremmo a discutere di abusi edilizi da
abbattere perché non
sarebbero mai sorti grazie al doveroso sequestro dei cantieri nella
primissima fase iniziale. Già questo denuncia in termini storici la
scarsa volontà generale di affrontare il tema dell'abusivismo edilizio
con efficacia e decisione prima del verificarsi del danno globale (danno
che oggi ci si affanna a definire per certi versi inaffrontabile proprio
perché è diventato talmente diffuso da essere scambiato per un diritto
acquisito). La legge 47/85La legge n. 47/85 prevede da tempo due procedure sinergiche: una amministrativa e una penale, entrambe finalizzate, prima ancora che alla punizione del colpevole, soprattutto ad eliminare il danno sul territorio. Infatti
la legge n. 47/85 ha creato
una duplice, ed affatto sovrapposta, competenza istituzionale per
contrastare gli abusi nel campo urbanistico-edilizio, demandando alla
pubblica amministrazione da un lato, ed al magistrato penale dall’altro
compiti paralleli e sinergici. Competenze della Pubblica amministrazione E’
pacifico e logico che
il ruolo primario in sede di prevenzione e repressione degli illeciti sia
stato assegnato alla Pubblica
Amministrazione; a questa è stata attribuita la funzione di controllo
preliminare del territorio e di intervento immediato e diretto verso gli
abusi riscontrati. L’azione
del Sindaco costituisce una sorta di ciclo chiuso
in questa fase di azione repressiva:
é di sua specifica competenza tutta la prassi, dall’emissione
dell’ordinanza di sospensione dei lavori, al provvedimento finale di
chiusura dell’iter, che deve culminare con quegli atti predisposti
per far sì che l’opera illecita sia abbattuta coattivamente o
acquisita al patrimonio pubblico. Queste due azioni terminali
rappresentano il vero effetto reale di tutta la procedura amministrativa
giacché tendono, da un lato, ad evitare
che comunque il titolare dei lavori abusivi usufruisca in modo
praticamente definitivo dell’opera
illecita e, dall’altro, ad eliminare concretamente dal territorio
l’opera stessa (o quantomeno a creare una fruizione a vantaggio pubblico
con una forzata tolleranza, se compatibile con gli assetti
urbanistico-territoriali). Nel contempo il magistrato deve perseguire l’illecito per
l’aspetto penale, ma in teoria la procedura amministrativa dovrebbe
essere già esaurita, o quantomeno in fase avanzata al momento del
dibattimento. Così
incardinato, se rispettato, il sistema normativo evita certamente ogni
rischio di sovrapposizioni o interferenze giurisdizionali verso il campo
amministrativo. Ma la realtà
storica dei fatti, evidente sotto gli occhi di tutti,
ha dimostrato che questa fase finale della procedura ben raramente
(quasi mai) é stata portata avanti fino in fondo dalla P.A. (in altre
parole, abbattimenti o acquisizioni sono stati casi sporadici e non la
regola sistematica). Del resto questa osservazione é confermata
indirettamente dal fatto che concessioni in sanatoria, ma soprattutto
condoni “tombali”, hanno visto masse enormi di abusivi di ogni tipo
affollarsi per pretendere il proprio turno: se le procedure amministrative
fossero state rispettate fino in fondo, ben poche sarebbero state le opere
abusive da condonare, giacché gli abbattimenti o le acquisizioni
avrebbero dovuto azzerarle sistematicamente. Competenze del giudice penaleIl
legislatore nel 1985, evidentemente con una realistica intuizione, ha
creato una ulteriore norma di garanzia
quando, nell’art. 7, ultimo
comma della legge n. 47, prevede per il
giudice penale l’obbligo di ordinare a sua volta nella sentenza
di condanna la demolizione delle opere abusive “se ancora non sia stata
altrimenti eseguita”. In realtà tale ordine impartito dal giudice
penale doveva restare entità marginale, perché in linea di principio la
demolizione doveva essere già stata eseguita
(naturalmente dalla P.A.) e dunque il rafforzativo contenuto in
sentenza doveva avere ben pochi effetti pratici. Ma i fatti concreti sono
andati ben diversamente. E le sentenze penali di condanna sono giunte (e
passate in giudicato) quasi sempre con le procedure amministrative ferme
ad un punto inerte e con le opere abusive ancora intatte (e magari
abitate). Svilita
quindi la funzione primaria della P.A. , che non é quasi mai riuscita a
concludere con forza coattiva la sua (doverosa) procedura, il ruolo del
giudice penale diventa a sua volta primario,
in riferimento alla fase della
stessa procedura che resta sempre nodale,
perché rappresenta il concreto destino degli abusi edilizi di ogni tipo
(soprattutto quelli di grande rilevanza ed impatto). L’ordine impartito
dal giudice non va pertanto quasi mai ad incidere su una prassi
amministrativa che ha concluso (o quantomeno sta per concludere)
l’attività repressiva propria, ma va ad innestarsi
traumaticamente su una narcotizzata pratica burocratica giacente in
attesa degli eventi. Sentenze della Corte Suprema di CassazioneL’ordine
del giudice penale, inizialmente, veniva trasmesso dal magistrato alla Pubblica Amministrazione (Comune) per la pratica esecuzione. Ma l’inerzia della P.A. è
in genere rimasta inalterata, perché quelle amministrazioni che
non avevano avuto la forza coattiva di demolire di propria iniziativa non
hanno mai trovato energie neppure per tradurre in pratica l’ordine
contenuto in sentenza. E così, teoria a parte, le cose sono di fatto
rimaste al punto iniziale; cioé, nel nulla di fatto. E su tale aspetto si
innesta, con effetti dirompenti, la sentenza
della Suprema Corte di Cassazione - Sez. VI penale , Sentenza n. 9400
del 22 luglio 1999, Imp. Aresu - sopra citata, stabilendo che il Sindaco
ha un anno di tempo per demolire. In questo contesto, tuttavia, la
magistratura ha ritenuto che, comunque, l’esecuzione dell’ordine in
questione sia di competenza
giurisdizionale penale e non amministrativa;
gli atti vanno dunque
trasmessi al P.M. anziché al sindaco per la fase attuativa. La Corte di
Cassazione aveva già confermato in passato
tale orientamento. Infatti
le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione (con la sentenza 19/6/96 n. 15, pres. Callà, rel.
Albamonte, ric. Pm in
proc. Monterisi) hanno
stabilito che: -
l'ordine di demolizione
delle opere abusive, impartito
ex art. 7 legge 47/85 dal
giudice penale in sentenza di condanna per violazioni alla normativa
urbanistico-edilizia, non deve essere eseguito dalla pubblica
amministrazione ma, al contrario, la caratterizzazione che tale
provvedimento riceve dalla sede in cui viene adottato conferma la
giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria
riguardo alla pratica esecuzione
dello stesso; -
non essendo neppure ipotizzabile che l’esecuzione di un
provvedimento adottato dal
giudice venga affidata alla pubblica amministrazione, salvo che la
legge non disponga altrimenti in modo espresso, gli atti relativi devono
essere trasmessi dal giudicante al PM in sede affinché, in caso di omessa
attuazione spontanea da parte del prevenuto, provveda all'esecuzione degli
ordini medesimi a cura del proprio ufficio, eventualmente avvalendosi
della forza pubblica; -
l’organo promotore dell’esecuzione va dunque identificato nel
pubblico ministero, con connessa parallela funzione del giudice
dell’esecuzione per quanto di specifica competenza; le spese della
procedura sono a carico del condannato inadempiente ed a tal fine la
cancelleria del giudice dell’esecuzione deve provvedere al recupero
relativo, previa eventuale garanzia reale a seguito di sequestro
conservativo imposto su beni dell’esecutato.
La competenza esclusiva e totale dell’autorità giudiziaria nel
settore, comporta che le attività dovranno comunque essere gestite in
proprio dall’ufficio del P.M. il quale, come già stabilito nelle
pregresse pronunce della Suprema Corte, si avvarrà sia della forza
pubblica che di organi tecnici esterni per le operazioni pratiche. Le
Sezioni Unite, prevenendo opportunamente e significativamente dubbi (onde
evitare nuove fasi di stallo formali), affrontano anche il problema delle
spese (che in precedenza aveva dato luogo a qualche freddezza applicativa)
e stabiliscono che “la cancelleria del giudice dell’esecuzione deve
provvedere al recupero delle spese del procedimento dell’esecuzione nei
confronti del condannato (art. 181 norme att. C.p.p.), previa eventuale
garanzia reale a seguito di sequestro conservativo imposto sui beni
dell’esecutato (art. 316 c.p.p.), trattandosi di spese processuali”.
Naturalmente
potrebbero presentarsi problemi
pratici in ordine alle modalità dirette per le operazioni di abbattimento
(ed in particolare di rimessione in pristino, che comporta una fase
maggiormente propositiva); ed anche su tale punto si noti che le Sezioni
Unite hanno ribadito la logica procedura da seguire: “Passando alle
modalità di esecuzione ed agli organi
preposti, osserva questo Collegio che, essendo il titolo esecutivo
costituito dalla sentenza irrevocabile, comprensiva
dell’ordine di demolizione, l’organo promotore
dell’esecuzione va identificato nel pubblico ministero, il quale, ove il
condannato non ottemperi all’ingiunzione a demolire, non potrà che
investire il giudice di esecuzione, al fine della fissazione delle modalità
di esecuzione”. Non
resta quindi che applicare all’esecuzione dell’ordine di demolizione
il procedimento attinente all’esecuzione dei provvedimenti
giurisdizionali: il pubblico ministero “cura di ufficio l’esecuzione
(...)(artt. 655 c.p.p. e 29 re.): ove sorga una controversia concernente
non solo il titolo ma le modalità esecutive,
viene instaurato dallo stesso pubblico ministero,
dall’interessato o dal difensore procedimento innanzi al giudice
dell’esecuzione (artt. 665 ss. C.p.p.).”. Concetto chiarissimo che
consente con certezza di risolvere nella sede indicata ogni problema
pratico sia sui tempi, mezzi e modi dell’operazione che sui soggetti ed
organi incaricati in modo specifico. La presunta scusante delle difficoltà
economiche nell’operare le demolizioni amministrative appare quindi
strumentale nella maggior parte
dei casi. Ma se anche ciò fosse vero,
va rilevato che, dopo l'ordine reiterato dal magistrato penale in
sentenza di condanna o patteggiamento, la demolizione (originariamente
puramente amministrativa, in
detta seconda fase surrogativa ) diventa procedura di esecuzione penale e
le sezioni unite della Cassazione hanno chiaramente precisato che le spese
sono a carico dell'esecutato, attraverso le procedure di cancelleria di
rito. Quindi, in questa seconda ed ulteriore fase anche la presunta
difficoltà economica amministrativa viene a cadere, giacché si trattava
e si tratta di procedura penale che non comporta alcun addebito per le
pubbliche amministrazioni comunali. Competenze degli Enti Parco
Va altresì sottolineato che, in base
all’art. 29 della legge 6 dicembre 1991 n. 394 (legge quadro
sulle aree protette), il potere inibitorio e di abbattimento/remissione in
pristino in ordine alle opere abusive realizzate nelle aree protette,
viene attribuito direttamente anche all’ente
gestore. Viene, infatti, previsto espressamente che il legale
rappresentante dell’organismo di gestione dell’area naturale protetta,
in caso di opere illegali in violazione delle normative (piano,
regolamento o nulla osta), dispone l’immediata sospensione
dell’attività in questione ed ordina in ogni caso la riduzione in
pristino a spese del trasgressore, con la responsabilità solidale del
committente, del titolare dell’impresa e del direttore dei lavori in
caso di attività edilizia. Ma il punto ancora più importante risiede nel
potere dello stesso legale rappresentate di procedere, in caso di
inottemperanza all’ordine di riduzione in pristino, all’esecuzione in
danno degli obbligati secondo la procedura di cui all’art. 27 della L.
n. 47/85. E’ sottinteso che nel concetto di riduzione in pristino è
compresa anche, ed anzi in primo luogo, la demolizione delle opere abusive
(l’articolo 27 della legge n. 47/85 richiamato come rinvio procedurale
ed operativo riguarda appunto la demolizione di opere illecite da parte
dell’autorità amministrativa). Dunque, tale previsione consente
all’interno delle aree protette una nuova individuazione di potere
amministrativi operativi, in verità fino ad oggi quasi mai attuati se non
in maniera marginale e locale. Conclusioni Va ricordato
ancora che il 20 marzo
1998 é stata firmata una convenzione tra i Ministeri della Difesa e dei
Lavori Pubblici, dando attuazione alla legge 662/96, per consentire
l’utilizzo dell’esercito per le demolizioni in caso di impossibilità
di affidamento secondo le normali procedure amministrative. Presso i
provveditorati regionali delle Opere pubbliche
sono istituiti appositi comitati, composti da un rappresentante del
comando militare e uno del prefetto, cui si aggregano rappresentanti del
Comune interessato e dell’eventuale commissario regionale ad acta (in
caso di inerzia del Comune). La sinergia di queste elaborazioni giurisprudenziali
(obbligatorietà del sindaco di concludere le procedure di abbattimento
entro un anno e la competenza parallela
del PM per eseguire gli ordini di abbattimenti impartiti in sentenza oltre
ai poteri del legale rappresentante dell’ente Parco) offrono concreti
strumenti per favorire la pratica attuazione delle demolizione delle opere
edilizie abusive. Sostanzialmente dunque ogni argomentazione per evitare e
rinviare le demolizioni e le remissioni in pristino appare oggi strumentale e
cela esclusivamente una mancata volontà pratica e concreta di agire.
Le norme ci sono. Basta applicarle. Riteniamo
dunque che la procedura per le demolizioni sia oggi perfettamente
attuabile, sia da parte della Pubblica Amministrazione, sia da parte della
Magistratura penale. Ma, se
si vuole argomentare che la situazione è ormai inaffrontabile, perché in
alcune aree di fatto è impossibile accedere per operare le demolizioni
senza provocare barricate o rivolte sociali, allora il tema cambia
totalmente connotazione. Non è più un Sostanzialmente dunque ogni
argomentazione per evitare e rinviare le demolizioni
e le remissioni in pristino appare oggi problema di applicazione della
legge urbanistico – edilizia, ma di ordine pubblico e quindi
sostanzialmente politico. Non è vero dunque che in tale ipotesi non
esistono gli strumenti; in realtà siamo nell’ impossibilità pratica di
attuare gli strumenti esistenti.
A
questo punto il panorama è chiarissimo e resta da chiedersi: -
Perché le pubbliche amministrazioni comunali fino ad oggi non
hanno stroncato sul nascere cantieri illeciti consentendo loro la crescita
illegale fino a creare
l'esplosione di abusivismo che oggi si definisce inaffrontabile? L'attività
di vigilanza e di controllo del territorio dove era mentre gli abusivi
lavoravano? -
Successivamente, preso atto che le opere abusive sono sorte
apparentemente nella ignoranza generale,
perché le pubbliche amministrazioni comunali non hanno adottato i
doverosi provvedimenti di abbattimento delle stesse come prescrive la
legge? O meglio: perché anche se hanno adottato a livello puramente
cartaceo i provvedimenti non li hanno poi materialmente eseguiti? -
Perché le pubbliche amministrazioni comunali non hanno eseguito
anche gli ordini di demolizione surrogativi impartiti dal magistrato
penale? -
Perché le sentenze definitive (di
condanna o patteggiamento) con gli ordini di demolizione eseguibile da
parte del Pubblico Ministero non sono poi state materialmente attuate?) Se dunque, come abbiamo dimostrato, il problema è sostanzialmente politico-amministrativo, ci si deve legittimamente domandare perché si ritiene che questo verrebbe superata la proposta in oggetto e non già, come appare evidente, che le stesse motivazioni politiche produrranno proroghe dei termini, dilazioni, procedure ancora più lunghe, perché legittimate e formalizzate da precise aspettative sancite per legge. Un’eventuale nuova legge dunque, deve accelerare gli iter attuali e non già stabilire nuove procedure, che inevitabilmente rallenterebbero i già faticosi iter oggi vigenti. Il Disegno di
legge 4337
Come abbiamo dimostrato, la normativa vigente, seppur certamente
non perfetta, è già formalmente idonea per favorire la prevenzione in
materia urbanistico/edilizia e la eventuale repressione degli abusi anche
mediante il ricorso alle demolizioni. Abbiamo infatti visto come
la legge n. 47/85 preveda tutti gli strumenti idonei per tali
finalità. Se l'abusivismo è esploso e non è cessato neppure dopo i
condoni, è perché sino ad oggi è mancato sostanzialmente il controllo preventivo e
repressivo sul territorio; questo è un problema politico e gestionale e
non può essere presentato come un problema giuridico. Questo
non significa che le norme non funzionano,
bensì che non funziona chi le norme deve applicarle.
Rischia dunque di essere fuorviante discutere di nuove strategie
legislative per abbattere le opere abusive o prevenire l'edilizia illecita
se contestualmente non si vara un programma realmente operativo
per obbligare tutti
gli organi di vigilanza preposti (ivi inclusi gli organi di polizia
statali e locali) a fare quello che non solo la legge n. 47/85 prevede ma
soprattutto quello che il
Codice di Procedura Penale impone: impedire che il reato venga portato ad
ulteriori conseguenze non appena questo viene
accertato. Ciò significa, in altri termini, operare i doverosi
sequestri di carattere penale dei cantieri, cosa quasi mai avvenuta,
lasciando così l'abusivismo libero
di proliferare. E’ questo
punto il centrale della questione da
affrontare e risolvere
con decisione .
Un provvedimento normativo che voglia realmente incidere in modo
innovativo (e non solo a livello d’immagine) deve dunque
in via prioritaria risolvere definitivamente il problema della
doverosa applicazione della legge vigente da parte degli organi di Polizia
giudiziaria, prima ancora che delle pubbliche amministrazioni comunali.
Si è in alcune sedi argomentato che il sequestro dei cantieri
nella pratica risulterebbe essere inutile poiché i sigilli vengono impunemente
violati e l'opera abusiva prosegue; a quel punto la Pubblica
Amministrazione, e dunque lo Stato, risulta essere
sostanzialmente impotente. E’ questa un’argomentazione
sorprendente visto che la violazione dei sigilli costituisce un preciso
reato previsto non della
normativa urbanistico/edilizia ma dal Codice Penale; si tratta di reato
grave che va perseguito in via autonoma e in alcuni casi specifici è
addirittura possibile anche l'arresto in flagranza. Ciò significa che,
perlomeno nei casi di maggiore ed esasperata gravità, l'eventuale
impotenza dell'organo accertatore non deriva dalla presunta carenza
normativa ma dalla sua incapacità di applicare la norma vigente, che è
precisa e puntuale. Infatti l'ipotesi di violazione di sigilli di cui al
secondo comma dell'articolo 349 Codice Penale prevede l’arresto
facoltativo in flagranza nel caso in cui la violazione del sigillo sia
commessa dal soggetto che riveste anche la qualifica di custode e dunque
basta nominare il responsabile del cantiere illecito anche custode
giudiziario dell'area sequestrata - come prassi comune - per creare un
presupposto procedurale incontestabile e di efficacia repressiva diretta.
Naturalmente ogni norma preventiva e repressiva può essere calibrata
secondo la gravità del caso e si può ricorrere a strumenti gravi in
relazione a casi gravi, ma non si argomenti però che mancano le
previsioni di legge e le possibilità operative offerte dalle norme. Un articolo
aggiuntivo al provvedimento in esame potrebbe reiterare ed avvalorare il
principio dell’obbligatorietà
del sequestro rendendolo di chiara ed inequivocabile lettura in modo
specifico per la materia urbanistico - edilizia. Modifiche
ed integrazioni alla L. 47/85, art. 8
Riguardo la lotta al nuovo abusivismo l'articolo 8 vorrebbe introdurre procedure più snelle e semplici, anche al fine di un tempestivo intervento che porti all’immediato abbattimento dell’abuso prima che questo sia ultimato, ma in realtà non tiene conto di alcuni principi dell’ordinamento amministrativo e sottovaluta alcuni aspetti della precedente normativa che sono stati giudicati come eliminabili. Se l’obiettivo dell’art. 8 è quello di uno snellimento e velocizzazione delle procedure di abbattimento e, a tal fine, dell’eliminazione di presunti ostacoli formali connessi alla legislazione vigente, dobbiamo rilevare che questo obiettivo non è affatto raggiunto.. Un’attenta analisi dell’articolo proposto evidenzia che le modifiche normative proposte non solo sono assolutamente superficiali sul piano strettamente giuridico, ma addirittura, per alcuni aspetti puntuali, peggiorano la situazione vigente. Infatti, in primo luogo, viene sostanzialmente eliminata quella fase dell'ordinanza di sospensione dei lavori che, considerata un ostacolo alla velocità della procedura, rappresenta invece oggi l'unico strumento parzialmente efficace per bloccare comunque i lavori in atto giacché i sequestri sono di fatto inesistenti. Detta ordinanza rappresenta un punto fermo di carattere formale che “santifica” l'illegalità in atto e crea il presupposto per una seconda violazione conseguente (ulteriormente sanzionata penalmente) in caso di violazione dell'ordinanza stessa. E’ questa una fase “genetica iniziale” che le amministrazioni comunali dovrebbero attivare quale base per tutte le procedure successive (abbattimento o acquisizione) che poi invece rimangono quasi sempre lettera morta. L'ordinanza di sospensione dei lavori è stata un punto di riferimento per l'attività di contrasto degli abusi edilizi e ha rappresentato l'unico strumento fino ad oggi immediatamente operativo per bloccare i lavori. Eliminare tale passaggio significa fornire preziosi giorni di lavoro illegale non censurato penalmente nel corso dei quali, entro le more del rinnovato procedimento amministrativo (che non è affatto così istantaneo come si vuole sostenere), l'abusivo completa l'opera e di fatto potrebbe anche insediarvisi. Inutile ribadire in questa sede le note conseguenze sulle argomentazioni strumentali relative alle abitazioni abusive occupate. La procedura delineata dall’art. 8 stabilisce che il dirigente "accerta l'esecuzione di opere illegittimamente eseguite" e questo non può che avvenire, necessariamente, attraverso un provvedimento amministrativo basato comunque su una valutazione di condivisione del verbale dell'organo di vigilanza (e dunque trattasi di una fase assolutamente iniziale); soltanto successivamente lo stesso dirigente "dispone la demolizione". Attenzione: il disegno di legge usa il termine “dispone” e non “esegue” , il che significa che traduce in un atto amministrativo una volontà decisionale, che deve seguire poi il suo regolare iter, visto che si tratta di un normale atto amministrativo che non può sfuggire alle regole generali del diritto, comprese le eventuali impugnative di rito. E’ poi previsto che lo stesso dirigente debba dare di tale disposizione "comunicazione alle amministrazioni competenti che stabiliscono le modalità esecutive ai fini della tutela del bene e possono effettuare direttamente la demolizione". Si valutino bene questi passaggi: in primo luogo il dirigente non effettua affatto direttamente la demolizione, ma si limita a disporla per trasmettere poi gli atti ad un organo terzo. In secondo luogo, si può discutere a lungo (e possiamo ben immaginare come questo possa essere fatto in sede di ricorso amministrativo) su quali siano le non meglio identificate "amministrazioni competenti". Una volta individuate le amministrazioni competenti, si vede che queste non sono affatto obbligate ad effettuare la demolizione, bensì "possono effettuare" la demolizione. Ovviamente questo automaticamente significa che potrebbero anche decidere di non effettuare le demolizioni riproducendo così esattamente la situazione di stallo da cui si dovrebbe uscire. Le stesse amministrazioni devono poi comunque stabilire le modalità esecutive ed appare evidente che il dirigente che avvia la procedura svolge un ruolo minimale, assolutamente propedeutico, e senza attivazione diretta e pertanto non si crea affatto quell'automatismo demolitorio, quasi istantaneo, che si è voluto dichiarare come conseguente all’approvazione dell’art. 8 del disegno di legge. L’ulteriore passaggio, sempre previsto dall’art. 8, appare poi difficilmente coerente con quanto in precedenza disposto, giacché si prevede che sia lo stesso dirigente che, accertata l'inosservanza delle norme e prescrizioni vigenti in materia, "dispone senza ritardo e comunque entro 48 ore dall'accertamento medesimo, l'immediata sospensione dei lavori fino all'adozione dei provvedimenti definitivi"(comma 3). Ecco di nuovo la sospensione dei lavori che viene riproposta (contraddicendo dunque la tesi che questa costituisca intralcio o rallentamento procedurale).
La norma non chiarisce
quali siano i casi in cui, ed in base a quali valutazioni più o meno
discrezionali, il dirigente
dovrà ricorrere a tale sospensione, che appare propedeutica rispetto
"all'adozione dei provvedimenti definitivi", e quando invece
dovrà provvedere a dare "comunicazione alle autorità
competenti" saltando la sospensione e dunque spogliandosi ipso iure
della pratica. Pertanto se, per evitare i rischi sopra evidenziati,
si dovesse ricorrere alla procedura di cui al comma 3 dell’art.
8, nulla cambierebbe rispetto
ad oggi e la rielaborazione risulterebbe inutilmente ridondante rispetto
alla normativa vigente. Se
invece il comma 3 si dovesse applicare soltanto ad alcuni casi rimane,
come abbiamo detto, assolutamente impossibile stabilire quali siano. Se
poi si ipotizza che le procedure del comma 3 si applichino quando
l'unica amministrazione competente sia il Comune, ci si ritrova
puntualmente alle procedure attuali, che verrebbero mutate soltanto
nominalmente, ma che dovrebbero inevitabilmente seguire gli stessi
passaggi formali già previsti
dalla norma vigente.
Il risultato sarebbe che, mentre oggi la procedura normativa è
chiara (anche se poi nella fase operativa è caduta in desuetudine
applicativa), nel rinnovato sistema normativo l'intrecciarsi dei casi si
presta ad una combinazione infinita di ipotesi nei rapporti tra le
"amministrazioni competenti".
Si vanificherebbe così
l’atto di sospensione dei lavori, con indubbio vantaggio per
l'abusivo che, nelle more della procedura
amministrativa, appesantita da possibili ricorsi cavillosi, stante le
molteplici possibilità interpretative
della norma, avrebbe tutto il tempo di continuare l’opera, esentandosi
dalla suppletiva sanzione penale susseguente all'ordine di sospensione. Non è dunque affatto ipotizzabile quella demolizione immediata da parte del dirigente comunale o addirittura (come impropriamente sostenuto da alcuni) dell'organo di vigilanza nella immediatezza dell'accertamento, ma è chiaro che trattasi di ordinarie procedure amministrative che richiedono i normali tempi connessi. Specialmente nelle grandi amministrazioni, soltanto per le fasi di trasmissione, protocollo, lettura ed assegnazione delle pratiche, è realistico ipotizzare more non di giornate ma di settimane (se non di mesi) e dunque il drammatico effetto e carattere dilatorio e defaticante della norma proposta risulta purtroppo essere palese. A parte ogni disquisizione sull'equilibrio di competenze tra Enti, che hanno prodotto in moltissimi casi infiniti passaggi e procedure, e che fino ad oggi hanno costituito il maggiore alibi per bloccare ogni procedura in materia, con un infinito rimbalzo di responsabilità (leggi “scaricabarile”), anche a voler ipotizzare un'improbabile e rinnovata certezza di confine tra la competenza del Comune con quella di altre "amministrazioni" (che, ripetiamo, la norma non identifica affatto), nel concreto il sistema delineato dall'articolo 8 crea una serie infinita di passaggi cartacei, che contrastano con le asserite esigenze e con l’obiettivo di accelerare l’iter d’intervento nell'affrontare l'abusivismo. Nuove competenze dei Prefetti; Uso temporaneo dell’immobile abusivo, Art. 4Pur condividendo in linea generale quanto stabilito per la competenza prefettizia sancita con l'articolo 4 del disegno di legge (e presentata come novità operativa), in realtà questa procedura è già possibile con le norme oggi in vigore. Secondo i principi generali dell'ordinamento, infatti, detta procedura potrebbe (e anzi dovrebbe) essere già attuata. Teoricamente, dunque, non servirebbe affatto un nuovo testo normativo per attivare quello che oggi potrebbe essere già potenzialmente attivabile. Comprendiamo comunque le esigenze di rafforzamento del ruolo dei prefetti.
Il punto centrale, tuttavia, dell’art. 4 è costituito dal
comma 5 che prescrive : "Se l'opera abusiva è destinata ad
abitazione del responsabile dell'abuso ovvero dei componenti del suo
nucleo familiare, entro 60 giorni dalla notifica del trasferimento di
proprietà di cui al comma 1 dell'articolo 3 può esserne richiesto l'uso
temporaneo al Prefetto che sospende l'esecuzione della demolizione". Questa
norma, per come è formulata
e per le conseguenze che potrebbe aprire, è inaccettabile. Si noti la
formulazione dei termini: non solo il responsabile dell'abuso è soggetto
che ha facoltà di attivare tale procedura, ma anche in alternativa
("ovvero") uno dei componenti del suo nucleo familiare. Questo
nel concreto apre una possibilità infinita di combinazioni ipotetiche che
possono essere individuate in tantissimi soggetti di facciata (compresi
l’eventuale nonno paralitico o il cugino disoccupato). In più,
non si
richiede una "residenza", bensì una generica
destinazione ad abitazione: praticamente basta che di fatto il soggetto si
trovi dentro l’immobile abusivo, almeno
nei momenti di verifica formale, per impedire ogni forma d’intervento.
In definitiva, quindi, basterà
che un soggetto qualsiasi, legato da un qualsivoglia rapporto familiare
con l'abusivo, permanga nello
stabile abusivo, perché la procedura di richiesta al prefetto di uso
temporaneo possa essere attivata. Crediamo che non si possa ignorare il
paradosso che, spesso, l’occupante dell’immobile abusivo è realmente
un soggetto di facciata non imputabile. Qualora il comma 5 dell’art. 4
dovesse essere approvato, si precluderebbe ogni possibilità
d’intervento, rafforzando definitivamente
la situazione di stallo, che verrebbe
praticamente garantita dal principio dell’uso temporaneo delle
abitazioni abusive, sancito
dall’art.5 e da noi contestato, nei termini proposti, in modo radicale e
pregiudiziale. “Abusivismo di necessità”, Art. 5 L’art.5 va ovviamente letto insieme al sopra citato quinto comma dell’art. 4. Il combinato delle due norme genera, a nostro giudizio, due ordini di problemi, uno formale e di principio, l’altro sostanziale ed applicativo. Quanto al primo, si verrebbe a creare un inaccettabile principio che “premia” con una dilazione di tre anni coloro che sono responsabili di un illecito penale, qual’è l’abuso edilizio, ancor più grave se si tratta di abusi compiuti in aree vincolate. Quanto al secondo, la procedura prevista creerebbe situazioni oggettivamente ingestibili, perché non riscontrabili, da parte delle autorità preposte (Prefetture, Comuni ed “autorità preposte alla tutela dei vincoli”). Poiché, come ripetutamente detto, l’abusivismo edilizio va considerato a tutti gli effetti un reato, in nessun caso può essere riconosciuto un diritto (quale quello all’abitazione) a chi ha costruito illegalmente. Se così fosse si creerebbe un pericoloso precedente giuridico nei confronti di altri reati commessi sempre per stato di necessità. Il prevedere procedure, pur stringenti e precise, per individuare gli abusivi a cui riconoscere il diritto all’uso temporaneo dell’abitazione e quindi l’assegnazione di altro alloggio, significa nei fatti che tutti gli abusivi proveranno ad avviare l’iter di richiesta e quindi sospenderanno comunque tutti quegli interventi di abbattimento che già oggi potrebbero essere eseguiti. L’art. 5 è in contraddizione poi con il comma 5 dell’art. 4: mentre infatti l’art. 5 riconosce l’uso temporaneo delle abitazioni al “responsabile dell’abuso”, il comma 5 dell’art. 4 estende tale riconoscimento all’intero nucleo familiare. Questo significa che i termini previsti dal comma 2 dell’art. 5 sono per inevitabile estensione interpretativa fatti salvi per tutti i componenti del nucleo familiare che rientrano nella previsione del comma 5 dell.art. 4; se così non fosse, l’art. 4 non avrebbe alcuna ragione di esistere. Questo in concreto significa che è facilmente prevedibile una valanga di domande di chi ritiene di poter beneficiare dell’uso temporaneo dell’abitazione che invaderebbe gli uffici preposti. Nel caso poi di dichiarazioni fatte con l’autocertificazione, ci si troverebbe nell’impossibilità oggettiva di verificare la sussistenza dei requisiti di cui al comma 2 dell.art. 5. Qualche esempio aiuta a comprendere meglio. Come può l’acquirente o l’affittuario di un immobile abusivo dichiarare che “il responsabile ha realizzato l’opera abusiva su un area di cui aveva il legittimo possesso”? E’ questa stessa cosa come può essere dichiarata in termini di autocertificazione da uno dei componenti della famiglia dell’abusivo che intende chiedere l’assegnazione temporanea di quell’abitazione? Chi controllerà mai che i componenti del nucleo familiare dell’abusivo non “siano proprietari o detentori a qualsiasi titolo di un’abitazione sul territorio nazionale”? E soprattutto, chi controllerà che questi non siano proprietari di abitazioni che sono state invece vendute? Visti le decine di migliaia di tentativi tesi a dimostrare che gli immobili che s’intendeva sanare erano antecedenti al 31 dicembre ’93, come si pensa di poter controllare la veridicità di una dichiarazione autocertificata, magari supportata da testimonianze di vicini anch’essi abusivi ? Non ripetendo quanto già detto, in altre e più chiare parole sosteniamo che chi ha costruito nella piena illegalità palazzi, villaggi turistici, ville o anche singole abitazioni, e non solo ha irrimediabilmente compromesso gli equilibri territoriali (si pensi ad esempio ai soli scarichi), oltre che quelli paesaggistici ed ambientali, ma ha anche quasi sempre commesso illeciti amministrativi e frodi fiscali (quanti costruttori illegali pagano le tasse come l’ICI o i contributi per le urbanizzazioni, o rispettano le norme per la sicurezza dei lavoratori ?), con questa nuova norma si troverebbe nella facile possibilità di salvare l’abuso realizzato attraverso figure fittizie. La proposta di legge poi non chiarisce chi è considerato abusivo, cioè chi ha commesso il reato, e pone sullo stesso piano tutti: abusivi, affittuari, acquirenti in buona fede degli immobili, ecc. Non v’è dubbio alcuno che, indipendentemente dal conduttore o dal proprietario, se l’immobile è abusivo e non può rientrare nelle previsioni di sanatoria, questo dev’essere abbattuto. Ma se dei distinguo devono essere fatti, il primo è quello tra truffati e truffatori, cioè tra lottizzatori abusivi e affittuari e acquirenti in buona fede. Forse solo in questo caso, e mai come riconoscimento di un diritto (visto che lo Stato non può rispondere di una truffa commessa da terzi), può esistere una sorta di attenzione che potrebbe portare, nelle more dell’abbattimento che dovrà comunque avvenire entro un termine certo ed inderogabile, al riconoscimento di una particolare situazione che consenta (magari al Prefetto) sotto forma di deroga un uso assolutamente temporaneo dell’alloggio. Ripetiamo che questa ipotesi, da approfondire comunque sul piano del diritto, non riguarderebbe gli abusivi e potrebbe essere applicata in funzione dell’acquisizione al patrimonio pubblico dell’immobile abusivo. Il concetto che dovrebbe essere approfondito non è dunque quello del riconoscimento di un diritto basato su un presunto stato di necessità, bensì quello di disporre del patrimonio pubblico (gli immobili abusivi verrebbero da questo acquisiti) secondo un obiettivo finale certo (l’abbattimento) con una discrezionalità (tutta ancora da definire) che tenga conto di particolari situazioni quali quelle degli acquirenti in buona fede. Si rileva anche che l’articolo 5 non tiene conto di alcune situazioni complesse quali quelle di immobili condominiali che sono composti sia da seconde case che prime case. Nel testo proposto gli aventi diritto all’uso temporaneo dell’abitazione abusiva occupata sarebbero coloro il cui reddito “non è superiore a quello previsto per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica”. Essendo questo diritto disposto da altra normativa, qualora sussistano le condizioni, risulta essere immediatamente applicabile nel momento stesso in cui si procede all’acquisizione pubblica dell’immobile abusivo. A
patto che l’essere abusivo non costituisca in alcun modo una corsia
preferenziale per l’assegnazione di case popolari, si condivide
l’impostazione dell’art. 6, con la specifica che occorre fare
esplicito divieto di realizzare nuove abitazioni sino a che non si
dimostri che non esistono alloggi disponibili sul mercato. Tale
disposizione nell’art. 6 è posta solo come scala di priorità e temiamo
che il previsto acquisto e recupero di abitazioni esistenti ,se fatto solo
“in via prioritaria”, e non esclusiva, possa rendere possibili
ulteriori programmi di sviluppo immobiliare.
Risulta chiaro che, con le modifiche
sopra individuate, si verrebbero
a rovesciare sia il principio sia la procedura, rendendo il
meccanismo più agile e, soprattutto, conforme
ai principi generali di
legalità: non è il “responsabile
dell’abuso “ a fare domanda per ottenere
l‘uso temporaneo dell’immobile abusivo, ma è la P.A. che,
nell’ambito dei poteri discrezionali di cui è titolare, può concedere
i suddetti “benefici”, previa verifica della sussistenza delle
condizioni. Si eviterebbe così
di intasare gli uffici pubblici di migliaia di domande e di lunghi
contenziosi amministrativi e, soprattutto, di codificare con una
legge dello Stato il
concetto di “abuso edilizio di necessità”. Va
infine sollevato il problema delle coperture economiche. Non v’è
infatti dubbio alcuno dell’importanza di finanziamenti straordinari
destinati ai Comuni per coprire i costi immediati degli abbattimenti e
quelli dei ripristini che mai verranno fatti a spese degli abusivi, ma la
cifra di copertura di 10 miliardi (Capo III, art. 9) è assolutamente
insufficiente e risibile anche se considerata per la sola fase di avvio.
Oltre le osservazioni sopra esposte, che il WWF giudica
pregiudiziali, esistono altri aspetti di dettaglio che potrebbero essere
modificati. Il testo dovrebbe avere a nostro avviso un’attenta rilettura
in sede tecnica per verificare, in modo più puntuale rispetto a quanto
sembra essere stato fatto, non solo tutte le connessioni rispetto
all’ordinamento vigente, ma anche tutte le possibili conseguenze
operative sul piano pratico. Le proposte del WWF Italia Monitoraggio delle sentenze passate in giudicato
e non eseguite.
Occorre rilevare che
questi aspetti propriamente giuridici sono stati paradossalmente
trasformati da illeciti penali in problemi sociali. Evidentemente dietro
l’abusivismo edilizio esiste in molti casi un grave problema sociale, ma
certamente si può dire
altrettanto di numerosi altri reati per i quali nessuno si sognerebbe mai
di sospendere l’esecuzione dei procedimenti penali in funzione della
comprensione sociale. Dunque,
con riferimento agli abusivismi di puro lucro in aree protette o comunque
a forte valenza ambientale, la
prassi omissiva attualmente in corso non può essere condivisa nel sul
piano del diritto né sul piano della politica e si deve riportare la
materia entro gli schemi ordinari al pari degli altri illeciti. Dovrebbe
infatti essere presumibile
che la magistratura penale abbia disposto con una serie rilevante di
sentenze di condanna e/o patteggiamento le demolizioni surrogative delle
opere abusive con pronunce passate in giudicato e pertanto assolutamente
definitive ed esecutive e sulle quali non vi è certo più alcun dibattito
possibile su cause di sanatoria, o
stati di necessità, o ricorsi ed altri aspetti formalistici inibitori. Si
dovrebbe trattare di sentenze semplicemente da eseguire. Poiché (come
rilevato prima) l’esecuzione
di tali sentenze è stata ricollegata dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione al Pubblico Ministero che, avvalendosi
della forza pubblica a spese del soggetto responsabile e secondo le
ordinarie procedure dell'esecuzione penale, dovrebbe senza indugi
procedere agli abbattimenti, sarebbe
certamente interessante un monitoraggio generale (a livello nazionale)
della situazione di pendenza di tali sentenze presso le cancellerie delle
Procure della Repubblica. Si ritiene che tale monitoraggio possa essere
estremamente utile sia per
percepire la natura quantitativa e qualitativa del fenomeno (e cioè se a
fronte degli abusi dichiarati ci sia stata o meno una verifica
giurisdizionale penale proporzionata),
sia per varare (nel caso che le sentenze giacenti fossero numerose)
un piano per attivare quelle demolizioni verso le quali non è
ipotizzabile alcun ostacolo né economico,
né amministrativo, né di ostruzionismo esterno, né di altra natura (a meno che
non si ritenga che l'organizzazione della giustizia penale non sia in
grado di attuare attraverso la propria forza cogente un provvedimento da
essa stessa emanato). La pratica delle cose comuni passate ci insegna che, qualora dovessero essere approvate le disposizioni previste negli articoli sopra citati, si costituirebbe il presupposto per una stabilizzazione praticamente definitiva dell’occupazione e, di conseguenza, degli abusi. Ma se anche così non fosse, appare paradossale che proprio l'ordinamento giuridico garantisce al responsabile di un illecito del godimento del frutto dell'illecito. E’ proprio il modo in cui questo concetto viene trattato che appare veramente sbalorditivo. Tale concetto è poi ulteriormente esplicitato nella nota di risposta ufficiale del Ministero dei Lavori Pubblici al documento del WWF Italia, a firma dell'avvocato Giuseppe Arnone, laddove si legge che ulteriore indirizzo politico e normativo sarebbe quello poi di riconsegnare di fatto la casa abusiva al titolare dell'abuso giustificando la fruizione del bene per scopi di pubblica utilità. Si legge in tal senso nel documento: "e d'altra parte va osservato che il principio di consentire l'utilizzo degli immobili abusivi per scopi di pubblica utilità è già contenuto nella legge n. 47/85. E che tale scopo di pubblica utilità possa consistere anche nel consentire temporaneamente la locazione abitativa dell'abusivo nel "suo" immobile è già presente nel nostro ordinamento giuridico attraverso la legge della Regione Siciliana 19/94, oggetto peraltro sul punto di pronuncia favorevole da parte della Corte Costituzionale". Vorremmo che su queste osservazioni ci fosse la massima attenzione perché si stanno intaccando delicatissimi principi giuridici: la libera interpretazione in ordine allo scopo di pubblica utilità sarebbe infatti ufficializzata nel consentire a chi delinque, cioè a chi commette un reato qual è l’abuso edilizio, di godere del frutto dell'illecito. Si può dunque legittimamente togliere le virgolette nel testo sopra citato giacché di fatto per l'abusivo l'immobile è realmente suo senza eufemistiche virgolette. Non può sfuggire a nessuno che se il disegno di legge fosse approvato nei termini proposti, indipendentemente dalla volontà espressa dal Governo, di fatto si creerebbe una nuova norma tendente non già a reprimere l'abusivismo ma a consentire una sostanziale sanatoria, cioè un condono non dichiarato, le cui conseguenze sarebbero ben più dannose di quelle precedenti visto che s’interviene non su casi specifici ma su principi di diritto.
Al di là di questioni di dettaglio che, seppur importanti, possono
essere giudicate di secondo piano, il WWF chiede: la formalizzazione di un
impegno del Governo ad un puntuale monitoraggio di tutte le pratiche
giacenti sull’abusivismo edilizio con particolare riguardo a quelle
presso la magistratura inerenti le sentenze di condanna o patteggiamento
definitive ed esecutive con ordine di demolizione ma rimaneste inevase (a
tal fine si auspica un’azione sinergica dei Ministeri dei Lavori
Pubblici, di Grazia e Giustizia e degli Interni; l’esplicitazione
dell’obbligatorietà d’intervento di tutte le forze di polizia nella
lotta all’abusivismo e soprattutto per il sequestro dei cantieri abusivi
con l’inserimento di specifico ed inequivocabile articolo nella proposta
di legge; la cancellazione del comma 5 dell’art. 4; la cancellazione
dell’art. 5; una parziale modifica dell’art. 6; la riscrittura
dell’art. 8; Poiché
siamo convinti che le intenzioni del Governo siano quelle dichiarate e che
il testo di legge proposto non sia stato sufficientemente analizzato sul
piano giuridico, chiediamo che in forma di emendamenti vengano garantite
le necessarie correzioni ritenendo impossibile, per le motivazioni sopra
illustrate, poter esprimere un parere favorevole qualora non vengano
risolti problemi radicali quali quelli esposti. ART. 3 - Comma 1°Non
risulta chiara la ragione per la quale, laddove le aree risultino
sottoposte a “vincoli di
tutela” l’acquisizione debba
avvenire a favore della specifica amministrazione preposta (tra
l’altro, nel caso più importante, quello del vincolo paesaggistico,
l’“amministrazione” sarebbe la Regione delegata o lo Stato?). La
norma oltretutto appare fuori luogo, giacchè in base al precedente ART. 1
questo Capo della legge riguarda esclusivamente gli abusi edilizi
verificatisi in aree vincolate. Ancor
meno si comprende perché, nel caso (frequente) di compresenza di più
vincoli, l’acquisizione debba avvenire a favore del Comune. Sarebbe
forse più semplice ed efficace (ricordando che qui si parla comunque di
aree vincolate) stabilire che l’acquisizione avviene a favore dello
Stato. Ciò comporterebbe tuttavia la necessità di modificare anche gli
articoli successivi (ad es. l’art. 8, comma 1° lett. d); si potrebbe
viceversa stabilire che l’acquisizione avviene in tutti i casi a favore
dei Comuni, semprechè ciò sia ritenuto corrispondere a necessità di
snellezza e decentramento amministrativo. ART. 3
- Comma 3°
Sembra
frutto di un errore materiale la dizione: “(…) Non è stata definita
la procedura repressiva prevista
dall’art. 7 della legge 28 febbraio 1985 n° 47, come sostituito
dall’art. 8, comma 1°, lett. a)”. Tale norma infatti concerne solo le
“Definizioni” dei vari soggetti; la procedura repressiva invece è
disciplinata dalle lettere successive, in particolare la d). ART. 4
- Comma 4°
Sarebbe
preferibile stabilire che le aree acquisite, una volta effettuate le
demolizioni, possono essere utilizzate “Per finalità pubbliche conformi
alla natura e ai contenuti del vincolo”, e non invece “…di interesse
pubblico…”. Tale dizione – specie dopo le allarmanti interpretazioni
circa quel che è o non è di “interesse” pubblico avvenute in regioni
come ad es. la Puglia – potrebbe aprire la strada a nuove speculazioni
sulle aree di risulta, a tutto vantaggio di imprenditori bene organizzati
che magari, dopo lo “sfratto” dei piccoli abusivi, potrebbero perfino
attingere a contributi pubblici delle UE o del CIPE, e magari ricevere le
opere di urbanizzazione a spese del comune. ART. 5
Si
è dettagliatamente argomentato sopra
come tale articolo sia totalmente difforme
dai principi e dalle norme, specifiche e generali. Se ne chiede di
conseguenza la soppressione. ART. 6
Si
condividono le perplessità di chi teme che esso, prevedendo ampi
programmi di edilizia residenziale pubblica a carico di Stato e regioni,
possa finire per concorrere all’incremento edilizio e alla sempre più
capillare urbanizzazione del territorio, muovendosi quindi in una
direzione diametralmente contraria a quella del recupero e della
“decostruzione” che una legge contro l’ abusivismo dovrebbe
perseguire. In via del tutto generale, ci sembra poi eccessivo
prevedere l’insorgere di una vera e propria “emergenza abitativa” a
seguito delle demolizioni. Risulta infatti dalla stessa relazione al
d.d.l. che, in una prima fase attuativa, sarebbe prevista la demolizione
di circa 500 abusi,
mediamente di non grandi dimensioni (300 mc cadauno). Considerando che
gran parte di essi non potranno assolutamente essere spacciati per prime
case di nuclei familiari indigenti (il solo fatto che ricadano in aree
vincolate sta ad indicare una prevalente situazione “extraurbana”, e
quindi una probabile utilizzazione “turistica” o speculativa), si
ritiene che situazioni di disagio sociale potranno al più verificarsi in
particolari situazioni, affrontabili caso per caso. ART. 8 - Comma 1°, lett. d) Al
5° Comma (dell’ art. 7 legge 47/85 così come sostituito) si propone di
sostituire la frase: “Non è consentita quest’ultima dichiarazione se
l’opera contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali o se
riguarda aree o immobili soggetti ai vincoli di inedificabilità…”
con la seguente frase: “Tale
dichiarazione non è consentita se l’opera abusiva contrasta con
rilevanti interessi urbanistici e ambientali, nonchè se ricade su aree
demaniali, di uso civico, ovvero destinate in base a leggi statali o
regionali a vincolo di inedificabilità. Non è ugualmente consentita se
l’abuso ricade entro le zone 1 e 2 di Aree protette nazionali e
regionali, o in zone tutelate ai sensi delle leggi 1089/1939, 1497/1939 e
431/1985, così come confluite nel Dlgs 490/99 (Testo Unico in materia di
Beni culturali e ambientali)”. Scopo
della sostituzione è anzitutto quello di eliminare l’ambiguità
presente nel comma citato (salva l’ipotesi che vi sia un vincolo di
assoluta inedificabilità, i Comuni potrebbero
discrezionalmente dichiarare la non demolibilità dei nuovi abusi sulla
base di non meglio precisati “prevalenti interessi pubblici”, e dopo
aver solo “sentito” le autorità preposte ai vincoli).
Tra l’ altro, questa norma sembra porsi in contrasto con quanto
stabilito dalla precedente lett. b) del medesimo art. 8, la quale –
sostituendo l’ art. 4 della legge 47/85 -
impone al dirigente comunale di provvedere alla demolizione dei
manufatti abusivi che sorgano nelle zone soggette ai vincoli di cui qui si
tratta, compreso quello paesaggistico, e perfino quello idrogeologico.
Altro scopo della modifica è
di dare più vigore ai vincoli stessi, imponendo la demolizione di
tutti i nuovi abusi almeno nelle zone soggette a vincolo
paesaggistico/ambientale, nei Parchi, ecc. Accogliendo tale proposta di modifica, è possibile
sopprimere il successivo comma 6 (dell’ art. 7 legge 47/85, così come
sostituito dall’ art. 8 c. 1° lett. d) del nuovo provvedimento). ART. 8 - Comma 1°, lett. h)) Al
2° comma (dell’ art. 27 legge 47/85 come sostituito) si propone di
sostituire la frase: “Al Prefetto, il quale potrà…” con la frase:
“Al Prefetto, il quale dovra’…”
OSSERVAZIONI
AL D.D.L. 1817 “SANATORIA
DELLE OPERE ABUSIVE COMPLETATE ENTRO IL 31/12/1995” Si
esprime assoluta contrarietà, giacchè si tratterebbe di
un’inammissibile ulteriore riapertura del Condono edilizio, che verrebbe
in tal modo a porsi come un’incivile sanatoria permanente. Sembra
inutile qui ripetere i dati, del resto ben noti, sulle impennate di
abusivismo verificatesi sia dopo il primo condono che dopo la riapertura
dei termini: un’ennesima riapertura infonderebbe in chi vuole violare la legge la
convinzione che, prima o poi, si troverebbe sempre una scappatoia per
farla franca.
Si ricorda che l’ex Ministro dei LL.PP., on.le Micheli, aveva
ufficialmente dichiarato che –almeno finchè durerà questo Governo –
non si dovrà più neppure parlare di altri condoni; ora il Ministro
LL.PP. è l’ on.le Bordon, che proviene direttamente dal Ministero Beni
Culturali e Ambientali, del quale è stato di fatto plenipotenziario.
Sarebbe davvero il colmo quindi se proprio in questa situazione le forze
politiche e di governo facessero passare un ennesimo provvedimento
“legalicida” e distruttivo dell’ambiente.
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